Intervento di Sua Em.za
Card. Giacomo Biffi
Anche se il programma prevede purtroppo una mia introduzione, io sono venuto
soprattutto per ascoltare. Voglio dire che non ho nessun titolo per parlare di
Tolkien, che non sia quello di lettore ammirato e riconoscente.
Posso solo forse contribuire un po' a creare il clima di questo convegno,
raccontando come sia pervenuto a conoscere l'opera e quali siano le ragioni,
tutte personali, del mio apprezzamento.
Credo fossero gli ultimi giorni del 1971. Una febbre fastidiosa e irriducibile
mi aveva costretto a letto per qualche tempo. Uno dei miei giovani - nel
caritatevole intento di consolare e incoraggiare il suo povero parroco malato -
venne a darmi da leggere un grosso volume: una sua recente scoperta, mi disse.
Era Il Signore degli anelli.
Cominciai la lettura senza entusiasmo e la proseguii, vincendo una certa
istintiva repulsione, più che altro perché non avevo sottomano niente di
alternativo.
Devo confessare che tutta quella folla di orchi, di nani, di stregoni, di elfi,
me la sentivo estranea e lontana, e francamente mi infastidiva. Il nostro popolo
ignora le saghe: i racconti della nostra tradizione sono le 'novelle', dove
compaiono mercantesse e studenti, ingordi signori e furbi popolani, ingenue
devote e pittori scanzonati uomini e donne, tutti, quotidianamente verificabili.
La mia anima italiana dunque mal sopportava sulle prime quel mondo di creature
fantastiche e senza alcuna plausibilità.
Ma, con mia meraviglia, a mano a mano che mi addentravo nella vicenda, ne ero
sempre più conquistato, fino ad arrivare all'ultima pagina con la persuasione
che mi era stata offerta un'esperienza culturale tra le più gratificanti, e
anche con un certo rammarico che quella straordinaria avventura dello spirito
fosse ormai alla conclusione. E che non sia stata una infatuazione passeggera,
me lo conferma il fatto che mi lascio ancora periodicamente tentare a
ripercorrere quelle pagine, e sempre avvertendo un incanto rinnovato.
Se adesso voglio arrischiarmi a riconoscere e a manifestare le ragioni del
fascino che Tolkien esercita tuttora su di me, credo di poter dire che
all'origine c'è la mia propensione per quelli che cantano fuori dal coro e la
mia connaturale affinità con coloro che non si adeguano ai gusti prevalenti e
alle mode.
Da sprovveduto dilettante in questa materia (che proprio perché dilettante non
ha l'obbligo di render conto a nessuno delle sue opinioni personali), mi ero
fatto in quegli anni l'idea che quanti si ponevano a scrivere subivano ormai
tutti qualche influenza dell'uno o dell'altro dei tre autori (molto diversi tra
loro) che, per così dire, si erano spartiti la funzione di capi-scuola nella
repubblica delle lettere: Joyce, Kafka, Proust. Avevano pubblicato quasi tutto
lungo gli anni Venti, e quando Tolkien arriva alla ribalta avevano già
dispiegato universalmente l'efficacia della loro esemplarità. Ma l'autore de Il
Signore degli anelli non pareva essersi nemmeno accorto di nessuno dei tre: la
sua scrittura non era per niente riconducibile a nessuno di quei modelli; il che
me lo rendeva pregiudizialmente simpatico.
La mia simpatia poi cresceva nel rilevare come egli avesse avuto il coraggio di
trascurare del tutto lo psicologismo, lo psicanalismo, l'esasperata
introspezione e ogni altra forma di soggettivismo imperante, ed era
tranquillamente tornato alla serenità espressiva delle narrazioni epiche di un
tempo, che si ritenevano ormai desuete e modernamente improponibili.
E mentre da molti il linguaggio veniva scardinato e ridotto a un'accozzaglia di
annotazioni impressionistiche, egli si compiaceva di costruire ancora i suoi
periodi con la chiarezza, l'ordine, l'architettura degli antichi scrittori.
Ma dove il non conformismo di Tolkien mi pareva addirittura deliziosamente
provocatorio era nella sua evidente risoluzione di infischiarsene completamente
di quell'ossessivo pansessualismo che negli autori contemporanei sembrava essere
diventato una specie di professione di fede. Non che mancassero nella sua
narrazione i temi dell'amore e della donna; mancavano però le prevaricazioni
minuziosamente descritte, le morbosità, le fissazioni libidinose, senza delle
quali pare che oggi non sia più possibile farsi accogliere dagli editori e
dalle programmazioni televisive.
Più profondamente Tolkien si imponeva alla mia attenzione per la sua robusta
certezza che il bene e il male sono tra loro incompatibili; che nella storia
umana è in atto un assalto tremendo da parte delle forze della perversione; che
l'esistenza è drammatica e non ci si può cullare in un irenismo zuccheroso.
In una cultura dove tutto è mescolato e grigiastro, dove pare che la vita sia
un gioco insulso senza scopo e senza regole, dove c'è molta comprensione per
tutto tranne che per le ragioni della verità, l'universo presentatone da
Tolkien mi appariva come un forte e provvidenziale richiamo all'autenticità
degli esseri, dei principi, delle intrinseche finalità; autenticità che resta
valida e intatta, pur quando viene obnubilata in una confusione soddisfatta e
addirittura ostentata.
Questi erano i miei pensieri di vent'anni fa, ma niente da allora mi ha convinto
a modificarli.
Mi sono in seguito reso conto che l'opera di Tolkien corre il serio pericolo di
qualche malinteso interpretativo.
Il primo è quello di venire confinata nella letteratura per ragazzi. Non che ci
sia qualcosa di disonorante in questa collocazione: anzi, dal momento che i
"piccoli" sono i più agevolati nella comprensione dei misteri del
Regno, diventare come loro significa mettersi nelle migliori condizioni di
accedere alla verità.
Del resto, quando un libro nativamente destinato ai bambini arriva ai fastigi
dell'arte vera e della poesia sostanziale, finisce immancabilmente coll'essere
nutrimento spirituale di tutti. Troviamo l'esempio più clamoroso ne Le
avventure di Pinocchio.
Ma se la questione del senso dell'esistenza, della scelta tra il bene e il male,
dell'impegno che ci è richiesto perché non divengano insulsi i nostri giorni,
riguarda sempre l'uomo maturato, che è in grado di capire e di decidere, allora
bisogna dire che la narrativa di Tolkien è essenzialmente "per
adulti".
Essa può incorrere però in una seconda e ben più grave disavventura, ed è
quella di essere classificata come "reazionaria" e posta al servizio
di una parte politica ottusamente illiberale.
E non si potrebbe dare travisamento più radicale. Non c'è nulla che sia più
rivoluzionario, più rinnovatore, più emancipante della verità; ed è la
verità delle cose a essere cantata in questi libri, oltre la veste variopinta
della fiaba.
Infine, nella nostra cultura senza riferimenti oggettivi e senza valori
assoluti, quelli che - come Tolkien - ancora ritengono di dover discernere tra
il bene il male, e persistono a ritenere che tra il bene e il male non si possa
concludere alcun armistizio, corrono sempre il rischio di venir accusati di
"manicheismo"; che è invece tutt'altra cosa. Ma su questo punto
specifico avremo la fortuna di avvalerci della competenza del Padre Guido
Sommavilla.
Per essere uno che aveva molto poco da dire, ho parlato anche troppo. Mi rimane
soltanto da formulare l'auspicio che questa intelligente e opportuna
celebrazione del centenario della nascita contribuisca efficacemente a mantenere
fresco e stimolante nella coscienza comune l'illuminante messaggio di John
Ronald Reuel Tolkien.
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