Intervista a Vittoria Alliata
di Villafranca
note
a cura di Guido Messina [1]
Vittoria Alliata, principessa siciliana e scrittrice di
ispirazione arabica, è stata la prima traduttrice del Signore degli anelli in
Italia, arrivato nel '68. Stilos l'ha intervistata.
Come avvenne che tradusse la trilogia
un lavoro così difficile e faticoso?
Me lo propose l'editore Ubaldini, che con le sue edizioni Astrolabio fu tra i
primi a far conoscere in Italia, con taglio scientifico, le grandi opere della
spiritualità orientale. Aveva acquistato i diritti del Signore degli anelli e
non riusciva a trovare un traduttore che si impegnasse a seguire meticolosamente
le ferree regole imposte da Tolkien. Io avevo 15 anni, frequentavo l'ultimo anno
del liceo francese di Roma e studiavo l'arabo all'Istituto per l'Oriente, dai
Padri Bianchi e a Beirut. Per finanziarmi i viaggi lavoravo già come interprete
e traduttrice simultanea (avevo contemporaneamente preso il diploma alla Scuola
interpreti di Roma) e cercavo proprio una traduzione impegnativa che mi
consentisse dopo il baccalaureat (la licenza liceale francese) di istallarmi in
Libano per preparare la ricerca in diritto islamico che sarebbe poi diventata la
mia tesi di laurea. Tutto questo per spiegare che aprii le pagine gialle alla
voce "editori" e che il primo era appunto "Astrolabio". Feci
la prova di traduzione che il puntiglioso glottologo Tolkien approvò con
entusiasmo, cosicché l'impassibile Ubaldini, uomo colto e pieno di humour, non
esitò ad affidare le circa duemila pagine dei primi due volumi, con regolare
contratto, a una sconosciuta quindicenne. Un uomo che va quindi ricordato non
solo per il suo coraggio culturale di pubblicare Patanjali e il Tao in pieno
Sessantotto, ma anche per la sua grande correttezza professionale."
Immagino si sia divertita molto nella
traduzione. Come visse quell'esperienza e quanto durò?
Traducevo di notte, con i ritmi che mi sono rimasti consueti, dormendo non più
di 4 o 5 ore usando, quando fu inventata, la rossa Valentina Olivetti, con una
custodia rigida che mi permetteva di scaraventarla ovunque, anche sul Velo Solex
con il quale "sfrecciavo" fra i tumultuosi impegni lavorativi e
sportivi. Si figuri che tempi diversi: non ho mai attaccato il motorino con una
catena, oggetto allora inesistente, perché nella tanto famigerata Roma del
Sessantotto nessuno si sarebbe sognato di rubare. Ho impiegato un anno per i
primi due volumi, che non ebbero successo, tanto che Ubaldini dopo alcuni anni,
credo nel '71, vendette i diritti all'editore Rusconi[2] che
aveva appena inaugurato una collana di autori tradizionali, e che mi chiese di
tradurre il terzo volume; ”[3]
Conosceva già Il signore degli Anelli
prima che lo traducesse? E come avvenne la sua conoscenza di Tolkien, semprechè
lo abbia conosciuto di persona?
Non conoscevo Tolkien nè le sue opere: erano tempi in cui i teen agers
leggevano piuttosto l'Ulisse di Joyce e i ribelli americani; io traducevo già
Lawrence Ferlinghetti e i poeti della West Coast, e della letteratura
"magica" mi cimentavo con il grande Yeats. A confronto con questi,
Tolkien era facile, anche un po’ ridondante, visto che non scriveva da
letterato, ma da linguista. Fu necessario scarnificare molto il testo affinché
la versione in italiano - idioma già di per sé ridondante - non fosse
illeggibile ma Tolkien non ebbe da ridire. Anzi, a lavoro completato comunicò
ad Ubaldini che la considerava una delle migliori traduzioni realizzate. Va
detto che concordavo con lui i punti più critici e che gli chiedevo di chiarire
eventuali dubbi, sempre tramite Ubaldini, visto che Tolkien - da incallito
misogino - rifuggiva contatti diretti con donne estranee. L'assenza quasi totale
dell'elemento femminile era d'altronde la cosa che più mi infastidiva del
libro, e tuttora la ritengo una grossa lacuna, non per motivi di "parità
di diritti", ma per ragioni intrinseche alle finalità stesse dell'opera.
Infatti Tolkien voleva a tutti i costi - e ci consegnò un memoriale in tal
senso - che le vicende sembrassero familiari, come se fossero appartenute
all'infanzia del lettore, o tutt'al più ai suoi antenati. Ma come ci si può
sentire partecipi di un mondo senza esseri femminili, e come identificarsi in
una protagonista, come Galadriel, dai connotati del tutto indefiniti?
Uno dei più grossi problemi che la
traduzione le ha posto è stata quella dei nomi propri di uomini e luoghi. Lei
ha scelto di mantenere il dettato inglese, ma in alcuni casi scelse la versione
italiana. Quale fu il criterio generale che si diede?
Per la traduzione dei nomi propri Tolkien aveva preparato un glossario che
consegnava ai suoi traduttori, dove spiegava con una minuziosità da glottologo
il significato e l'origine di ogni singolo nome e dava precise direttive sul
tipo di traduzione da adottare. Lo scopo era sempre quella familiarità con le
vicende, che dovevano essere vissute come se la Terra di Mezzo fosse una antica
contrada italiana. In questo Tolkien si riferiva alla grande tradizione delle
favole, che rimangono uguali da Esopo a La Fontaine, assumendo solo diversi
connotati "regionali". Pertanto, se un nome doveva sembrare esotico,
io adottavo etimologie greche, o addirittura arabe; se doveva essere familiare o
evocativo, etimologie latine o italiane: sempre comunque origini italianamente
plausibili. Lo stesso valeva per il tono e il ritmo delle filastrocche che non
avevano pretese poetiche, ma talvolta goliardiche, talvolta magiche o
folkloriche e per le quali Tolkien mi felicitò particolarmente. Nulla doveva
restare in inglese per preciso volere dell'autore, ed io infatti tradussi per
esempio, Sackville-Baggins in Borsi-Sacconi, concordandolo con Tolkien. Fu
Quirino Principe, curatore dell'edizione Rusconi, a decidere di utilizzare
l'originale inglese per gran parte dei nomi. Io certo non avrei mai osato
assumermi tale responsabilità, specie dopo la morte dell'autore."[4]
Lei è profonda conoscitrice della
cultura araba, che significa innanzitutto Le mille e una notte. Il signore degli
anelli rimanda alla cultura celtica e anglosassone. Siamo agli antipodi: due
poli che lei ha frequentato entrambi. Ama allo stesso modo i due generi di fiaba
o ha una predilezione?
Lei ha usato per Il Signore degli Anelli il termine di fiaba, e mi sembra molto
corretto, sebbene alcuni abbiano tentato di caricarlo di significati esoterici
ed iniziatici, cosa che non era in alcun modo nelle intenzioni di Tolkien.
Forse, se lo si fosse presentato pubblico come una fiaba, adatta ai bambini fra
i dieci e i dodici anni, Il Signore degli anelli avrebbe avuto subito un grande
successo, tanto più che soprattutto in quegli anni mancavano opere per ragazzi
di quell'età avidi di letture e purtroppo costretti a ingurgitare edizioni
abbreviate di autori pesanti, come Victor Hugo, o feuilleton melensi e
totalmente diseducativi. Invece il taglio dell'introduzione di Elemire Zolla
dava tutt'altri strumenti di interpretazione del testo, scoraggiando proprio i
lettori che lo avrebbero apprezzato di più. Tolkien non ha alcuna
"parentela esoterica" con altri grandi autori pubblicati dalla Rusconi
come Coomaraswami, Burckhardt e Guenon, per il semplice fatto che mentre questi
trattano dichiaratamente di metafisica, proponendo un ritorno alla tradizione
sapienziale, Tolkien racconta con una certa nostalgia e forse parecchio
pessimismo storie di un passato mitico che con la tradizione celtica iperborea
hanno in comune solo le rune [5]. L'averlo accomunato agli
altri, forzando la mano, ha probabilmente rallentato il suo successo. Ciò
comunque non inficia minimamente il merito straordinario che ha avuto la Rusconi,
soprattutto per iniziativa di Alfredo Cattabiani, nel pubblicare in quegli anni
opere considerate "reazionarie" e di cui oggi molti scoprono
l'importanza fondamentale. Io stessa ne sono stata profondamente influenzata,
proprio nella scelta di studiare la metafisica islamica, il sufismo, i cui
maestri ci insegnano fra l'altro che proprio le donne hanno nel proprio sviluppo
spirituale e in quello dell'umanità un compito essenziale, quello di praticare
la disciplina dell'amore. Un ruolo certo più impegnativo di quello politico,
occultato però non solo dalle rivendicazioni femministe: anche una certa
"destra" culturale italiana ha finora trascurato, o addirittura negato
le vie iniziatiche islamiche, preferendo risuscitare quelle massoniche,
ermetiche o addirittura antico-romane."
La sua traduzione risale agli anni
'70. Sono passati oltre trent'anni. Le è capitato di riandare con là mente
nella Terra di Mezzo? Insomma ha avuto qualche influenza nella sua vita la
trilogia tolkieniana?
Sin dai primi anni ho ricevuto centinaia di lettere e persino visite dei fan di
Tolkien, e molti oggi ancora scrivono per ringraziarmi della "fatica"
che consente loro oggi di leggere Il signore degli anelli. Sono stata invitata
dalla Società Tolkeniana che organizza a Tolmezzo seminari e festival, giochi
nei boschi e fiabe viventi, e mi sono divertita quasi quanto mia figlia, che
allora aveva sei anni e sognava di diventare un cavaliere della Tavola Rotonda.
A dieci è diventata una lettrice appassionata del Signore degli Anelli, di cui
raccomanda a tutte le amiche la traduzione della mamma. E' stata la prima ad
annunciarmi che il trailer del film utilizza la mia versione - e non quella
contenuta nell'introduzione di Zolla - del Poema dell'Anello. Non se ne era
accorta nemmeno la casa editrice Bompiani, che ne ha rilevato i diritti dalla
Rusconi, e i cui responsabili mi dicono di non essere nemmeno stati interpellati
dalla produzione del film. Se ciò fosse vero - e difatti non ho visto in alcuna
pubblicità il nome del traduttore e della casa editrice, né ho ricevuto alcun
diritto per l'uso della traduzione - sarebbe emblematico dell'atteggiamento che
ha il cinema verso la letteratura. Di sopraffazione. Non posso che rallegrarmi
di essermi rifiutata di vendere i diritti cinematografici di Harem e di InDigest
nella consapevolezza di non poterne controllare l'esito”.
Note
[1] L'intervista riportata è apparsa su
"Stilos", inserto del quotidiano La Sicilia, anno IV n.2 giovedì 24
gennaio 2002 con il titolo "Alliata: traduzione gradita al professore"
a firma di Nicola Adragna. Si è ritenuto opportuno aggiungere alcune note di
commento.
[2] L'ingresso in Italia de Il Signore
degli Anelli avviene nel 1967 con la traduzione dei due primi libri che
compongono la "Compagnia dell'Anello" edita da "Astrolabio".
Successivamente nel 1970 la Rusconi ripubblicò l'intera opera in un unico
volume rilegato. Nel 1974 fu poi pubblicata, sempre da Rusconi, una edizione in
tre volumi brossurata. Ulteriore edizione, in tre volumi, è stata pubblicata
dalla Bompiani.
[3] L'annoverazione di Tolkien fra gli
autori tradizionali è tutt'altro che pacifica. Essa è sostenuta
particolarmente da esponenti della destra tradizionale italiana. Tale
inquadramento risulta del tutto sconosciuto a livello di critica internazionale.
La stessa Alliata non condivide una simile catalogazione ove essa afferma che «Tolkien
non ha alcuna "parentela esoterica" con altri grandi autori pubblicati
dalla Rusconi […] per il semplice fatto che mentre questi trattano
dichiaratamente di metafisica, proponendo un ritorno alla tradizione sapienziale,
Tolkien racconta con una certa nostalgia e forse parecchio pessimismo storie di
un passato mitico che con la tradizione celtica iperborea hanno in comune solo
le rune.»
[4] Quirino Principe curatore dell’edizione
Rusconi con riferimento alla traduzione dei nomi ha motivato la sua scelta
affermando che «il traduttore, d’altra parte, ha voluto evitare note
stridenti. Perciò, anche se Baggins richiama bag (sacco, borsa), e così
Sackville richiama sack (con significato simile), chiare allusioni alla
prosperità e all’abbondanza in cui i Baggins vivono e in cui i
Sackville-Baggins vorrebbero vivere, ai miti di tesori nascosti, alla felice
allegria che domina Hobbiville (Hobbiton in inglese), il traduttore ha
conservato la forma originale, scansando così una traduzione "fuori
tono" come sarebbe potuto essere Sacconi o Borsi-Sacconi, o qualcosa del
genere» (Isda- Nota del Curatore
pag. 21-22).
In una recente intervista è ritornato sull’argomento ribadendo che : «I
Baggins, nella traduzione Ubaldini [cioè quella della Alliata] e nel resto del
dattiloscritto, erano divenuti "i Sacconi": brutto e semanticamente
sbagliato, poiché l'onomastica fuori dal tempo e dello spazio poteva e doveva
essere adottata nelle parti del libro ambientate fra gli Elfi, o a Brea, mentre
nelle pagine ambientate nella Contea occorreva qualcosa d'inglese che alludesse
alla similarità tra la Contea medesima e, che so, il Galles, la campagna
britannica, i paesaggi di Thomas Hardy o di Montague Rhodes James. Benissimo
"i Serracinta", famiglia di contorno, benissimo lo "scattanello",
ballo simpatico ma un po' troppo sfrenato, ma i Baggins dovevano rimanere
Baggins, per non scivolare in un'aura troppo realistica e familiare. I
Serracinta si limitano a mangiare e a bere, come nella bassa padana; i Baggins,
vivaddio, sono quelli che contendono il tesoro a Gollum, che lottano contro
Shelob e contro i cavalieri neri. Non prendiamoci troppe confidenze con loro.»
[intervista tratta da www.eldalie.it]
[5] vedi nota 3